Bibliotecari: ieri, oggi e domani

Fotogramma dal film Indovina chi viene a cena?

 

Qualcuno di voi forse ricorderà la scena del film Indovina chi viene a cena in cui Spencer Tracy, per raccogliere informazioni sul futuro genero, Sidney Poitier piovutogli tra capo e collo in casa e di cui non sa niente di niente, dice alla segretaria di chiamare la biblioteca pubblica. Poco dopo la segretaria lo richiama, sciorinando una lunga lista di titoli onorifici e successi scolastici e medici: tutte le informazioni richieste erano state recuperate in pochi passaggi dalla/dal bibliotecaria/o. Il film è del 1967 e ci dà un'idea di quanto già allora fosse diverso il ruolo dei bibliotecari e delle biblioteche pubbliche nei paesi anglosassoni : per loro  la public library era  un centro di informazioni, non solo un luogo in cui prendere libri. I nostri colleghi d'oltre oceano (ma anche d'oltremanica!) sono sempre stati più avanti di noi in questo senso, non essendo figli di una tradizione che considerava il libro un oggetto sacro, appannaggio di pochi eletti. Negli Stati Uniti, le prime biblioteche popolari (il modello di biblioteca su cui si fonderà la futura biblioteca pubblica) hanno fatto la loro comparsa - udite udite! - nel 1700. E in Italia? Dobbiamo aspettare il 1861. Ecco, rispetto ai nostri colleghi siamo centosessantuno anni indietro. Probabilmente è per questo motivo che anche adesso gli imput innovativi più interessanti (almeno a parere di chi scrive) arrivano da bibliotecari statunitensi. 


Perché scrivo tutto questo? Per una cosa che mi è successa qualche giorno fa. Ho raccontato sui social un aneddoto nel quale mi compiacevo del fatto che un frequentatore della biblioteca in cui lavoro avesse ringraziato me e i miei colleghi per l'aiuto fornitogli in questo periodo di pandemia per la realizzazione della tesi. Ho espresso la mia soddisfazione per il fatto di lavorare in un campo - quello dell'informazione - di grande importanza per la collettività. Mi è stato fatto notare che peccavo di superbia e di eccessiva autostima. Evidentemente, per chi commentava, il lavoro del bibliotecario era percepito come superfluo o poco significativo. Al netto dell'ironia del commento, mi sono però interrogata sull'impatto che abbiamo sul pubblico e sul territorio. Sull'idea che le persone al di fuori dell'ambito culturale hanno del servizio che offriamo. Nel nostro paese siamo ancora una professione considerata di nicchia. Non capita spesso che gli utenti ci interpellino per avere informazioni che si discostino dai libri e quando capita che gliele forniamo, sembrano quasi stupiti. Alcuni ci scambiano ancora per i librai. Non è la normalità chiamare la biblioteca per ottenere un'informazione che esuli dall'ambito dello studio, come faceva Spencer Tracy nel 1967. C'è ancora tanto lavoro da fare, sulla professione, ma anche su noi stessi e sul nostro modo di percepirci e farci percepire. Per fare in modo che le persone conoscano noi e il nostro lavoro, dobbiamo metterci d'impegno e toglierci di dosso i vecchi stereotipi che ci vogliono scorbutici ed arcigni, chiusi nella nostra torre d'avorio, a spolverare scaffali polverosi (?!), a disquisire di argomenti privi di interesse per la nostra comunità di riferimento. O ancora peggio, lavoratori inutili, sopravvalutati, perchè il nostro lavoro può farlo chiunque - che ci vuole? - basta essere appassionati di libri. Dobbiamo far valere la nostra formazione, l'impegno che mettiamo nell'aggiornamento e rendere il servizio che forniamo essenziale per la comunità. Solo così possiamo sperare di essere riconosciuti per ciò che siamo: professionisti dell'informazione. Come ci ricorda il collega R. David Lankes, direttore della University of South Carolina's School of Information Science, che nel 2012, ormai quindi quasi 10 anni fa, riferendosi alle biblioteche scriveva:  

Bad libraries build collections; good libraries build services (after all a collection is only one type of service); great libraries build communities.

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